Quarta pagina, casa.

Dopo aver parlato un po’ di me e di quello che mi piace fare, stavolta è il caso di parlare un po’ di casa.

Sia ben chiaro da subito che con “casa” non intendo l’edificio dove vivo adesso, che ha ben poco di interessante, ma il bellissimo luogo che mi ha cresciuta. Riassumendo in un’immagine, questo:

 

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Ok, avrei potuto mettere qualcosa di più impressionante, no? No.

Lo so benissimo anche io che questo è solo un semplice laghetto con qualche roccia intorno ma quello che conta, in questo caso, è il significato che ha per me. Ma prima di parlarne, contestualizziamo un po’.

 

Che sono nata e cresciuta in un paese che conta duecentocinquanta anime l’ho già detto e vi posso giurare che è proprio vero, lo dice anche il sito del comune. 250 abitanti.

Il che implica sostanzialmente due cose: primo, puoi fare quello che vuoi, anche sdraiarti in mezzo alla strada, perché al 99% non passerà nessuna macchina ad investirti ma, seconda cosa, tutti sapranno che ti sei sdraiato in mezzo alla strada (o che nello sfortunatissimo 1% di probabilità sei stato investito), perché tutti gli altri 249 abitanti ovviamente ti conoscono, proprio come tu conosci loro.

In questo bellissimo clima dove farsi i fatti propri è qualcosa di impossibile, sono cresciuta, fiera di essere la disperazione di mia nonna e mia zia, che avevano, purtroppo per loro, il compito di badare alla sottoscritta mentre i miei genitori erano al lavoro.

Tralasciando le innumerevoli corse in bicicletta che mi hanno procurato diverse cicatrici (di cui sono piuttosto orgogliosa), gli highlights della mia infanzia includono:

Un allevamento di lumache a scopi puramente ricreativi, insomma, povere bestiole, non potevo mica lasciarle vivere sole solette nei campi, no? Così ne ho prese diverse e le ho accudite nella mia bella scatola di gelato usata (e giuro, pulita) anche se, per qualche strano motivo, le bestiole in questione riuscivano a scappare dalla loro nuova casetta ogni notte. Probabilmente mia zia ne sa qualcosa in più.

Una guerra tutt’ora irrisolta tra i due clan di ragazzini del mio paese, perché sì, su 250 persone siamo riusciti a fare anche questo. Io ero il capo.

Una fuga organizzata nel minimo dettaglio assieme a quella persona geniale che è mia cugina. Avevamo rispettivamente sette e otto anni e ci siamo chieste (insomma, chi non lo ha mai fatto?) quanto tempo ci avrebbero messo i nostri parenti a ritrovarci se fossimo scappate di casa. Così, ore sette e cinquanta del mattino, scappiamo dal giardino sul retro accompagnate da un borsone da piscina pieno di merendine e da una macchina fotografica di quelle vecchie, che non si trovano più in giro (il rullino poi è misteriosamente sparito nel nulla). Ci allontaniamo grazie ad un sentiero che la sottoscritta conosceva fin troppo bene (altre avventure che è meglio lasciar perdere, anche se fanno invidia a “Cacciatori di fantasmi”) con l’intenzione di crearci un rifugio nel bosco e vivere vendendo braccialetti ed altre opere d’arte. Avvicinatasi l’ora di pranzo abbiamo deciso che un piatto di spaghetti sarebbe stato meglio di qualche merendina, quindi siamo tornate a casa, trovando la nonna di lei in stato si shock e mio padre arrabbiato come non l’avevo mai visto. Un mese senza gelato. E un rullino sprecato.

Diversi bagni nella fontana sotto casa, cose che potrebbero anche costarti una denuncia, ma in un paesino di 250 abitanti nessuno se n’è accorto se non i vicini. Che poi comunque, quando non era nella fontana era in un ruscello poco fuori dal paese, c’era anche la cascata (alta addirittura un metro e mezzo).

 

 

Quello che però ha segnato più di tutto la mia felice esistenza è stato ben altro. E qui finalmente arriva il momento di parlare della fotografia che ho messo, scattata troppi anni fa in un posto a circa 2500 metri dal livello del mare. Chi me l’ha fatto fare?  Mio nonno, che nonostante i suoi settantaquasisei anni portati benissimo e un intervento di dodici ore al cuore cammina più di me. Comunque grazie nonno, magari un giorno dato che adesso sei moderno e hai anche tu un computer te la faccio leggere questa cosa.

Dunque, come mi sono innamorata di quel posto?

Partita alle ore tre di un pomeriggio a caso di un giorno di inizio settembre, qualche anno fa, mi sono fatta la mia bella scarpinata per arrivare più o meno lì vicino, in un piccolo rifugio isolato dal mondo di cui non farò ovviamente nomi (poi mi picchiate perché faccio pubblicità occulta). Lassù il cellulare non prende e il cibo ce lo portano in elicottero, tanto per chiarire che non è esattamente il primo posticino fuori dalla porta di casa, anche se la prima volta che ci sono stata ero così piccola da non averlo nemmeno un telefono tutto mio. Dopo le due o tre ore di allegra passeggiata in salita si arriva, stanchi come pochi e giusto in tempo per godersi il tramonto e una cena che fa invidia a qualsiasi ristorante super chic di Milano. Poi partitina a carte con gli altri ospiti (sempre se ci sono), se non ci sono nuvole si possono guardare le stelle e a nanna. Certo, un rifugio del genere nonostante sia più o meno alla fine del mondo ha anche delle camere, che non sono esattamente quelle di un hotel ma dopo due o tre ore di allegra passeggiata in salita va bene tutto. E’ stato proprio l’anno dopo, in quello stesso posto, che ho visto la via Lattea per la prima volta in vita mia ed era tutto così meravigliosamente buio che le stelle erano fin troppe.

Il programma della prima volta prevedeva, la mattina dopo, un giretto rilassante tra tutti i laghetti che circondano il rifugio, pranzo all’aperto sulla riva di uno di essi e poi ritorno a valle. Se non fosse che tra una partita a carte e l’altra, la sera, qualcuno di cui non ricordo nemmeno la faccia ma che ringrazio, ha sfoderato delle fotografie meravigliose che aveva fatto il giorno prima a 3200 metri di quota.

E quindi, senza voler sentire ragioni, ho camminato altre due o tre ore, ancora in salita, fino ad arrivarci.

Perché non ho messo una foto di quel posto invece che di un semplice laghetto? Perché sfortunatamente non ho nessuna immagine decente e digitale. Le macchine fotografiche erano ancora quelle con un rullino che non potevi sprecare a fotografare la cena per poi postarla su Instagram e quindi niente, non le ho. Mi tocca quindi invocare la musa celeste delle descrizioni di paesaggi, il signor Turgenev e sperare di riuscire a rendere da sola, con le parole, quello che mi sono ritrovata davanti quel giorno.

 

Immaginate quindi di esservi svegliati più o meno all’alba e di esservi messi in marcia abbastanza presto, con il vostro zainetto sulle spalle. Costeggiate un piccolo ruscello che a valle diventa uno dei fiumi più belli in Europa per fare rafting, la cui acqua è talmente limpida da sembrare finta. Non c’è un granello di sporco nemmeno a cercarlo, dato che nessun essere umano che arriva fin lì si azzarderebbe mai a sporcarlo. Per dieci minuti avete solo questo, una salita appena percepibile in un sentiero costeggiato dall’erba e il verso di qualche animaletto ogni tanto. Voi camminereste così per sempre, fino a raggiungere Narnia, ma purtroppo avete trovato un bivio e dovete attraversare il corso d’acqua in questione, dato il ponte (leggi anche “singola asse di legno che collega una sponda all’altra”) che trovate è l’unico in chilometri.

Ora comincia la salita seria, dopo poco vi ritrovate addirittura a scalare una sottospecie di gigantesca roccia, sperando di non morire nel tentativo. Proseguite quindi tra un tornante e l’altro, sull’orlo di un precipizio (non in senso metaforico) con un lago meravigliosamente scuro in fondo, arrivando, passo dopo passo, sempre più vicini al vostro obiettivo, che non è una cima ma un minuscolo passo, che vi porterà ad un ghiacciaio.

Ed è proprio con uno di questi tanti passi che vi ritrovate magicamente ai piedi di un cartello che vi ricorda che siete stati proprio bravi perché siete appena arrivati a quota 3208 metri. Davanti a voi c’è solo il nulla. E’ inizio settembre, l’estate è appena passata, eppure sotto di voi c’è un’immensa distesa di neve bianca circondata da montagne che non osate nemmeno chiedere quanto siano alte. Il sole si riflette sul ghiaccio che si trova a pochi metri da voi, quasi accecandovi mentre da qualsiasi altra parte ci sono solo nuvole e montagne.

La consapevolezza ci mette un po’ ad arrivare, devono prima passarvi il fiatone e la voglia di saltellare da un sasso all’altro perché ci siete riusciti. Ma poi vi calmate e ve ne rendete conto, c’è un rumore che non avevate mai sentito prima: è il silenzio. Non c’è assolutamente nessun tipo di suono, se non un gocciolare in lontananza mentre la neve del vostro bel ghiacciaio si scioglie. Non ci sono auto, motori, musica, nemmeno gli animali a quell’altezza. E nemmeno voi avete il coraggio di fiatare e parlate sottovoce, se proprio è necessario.

Quel posto non potrebbero descriverlo nemmeno le parole di Turgenev, figuriamoci le mie. Il silenzio, il nulla, non penso di poterlo raccontare, si può solo vivere.

Però è rimasto impresso nella mia mente, tanto che ho guardato tra le mie montagne in cerca di quel posto ogni volta che sentivo la mancanza di qualcosa, e ultimamente più del solito mi ritrovo a guardare quel poco che si vede da qui quando va bene e non c’è foschia, cercando luoghi altrettanto tranquilli. Perché nel nulla non avevo bisogno di niente ed è proprio il niente a mancarmi.

 

Mi rendo conto ora, dopo giorni che ho questo post salvato tra le bozze e che vado avanti a poco a poco, che ho scritto molto più di quanto io immaginassi quindi non è il caso di continuare, per ora.

Probabilmente un giorno arriverà “Casa 2, la vendetta” e troverò qualche altra cosa carina di cui parlare, per ora mi fermo qui.

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